“Ho trovato questi dipinti arrotolati sotto ai letti di vecchie vedove, sepolti tra la spazzatura di famiglia, in angoli bui di studi d’arte, a volte utilizzati come rattoppi per i buchi nel tetto. Ne è venuta fuori una collezione che nessuno in Unione Sovietica avrebbe avuto il coraggio di mettere in mostra”.
– Igor Savitsky
In tempi di avversità, quando tutto sembra perduto, la storia ci insegna che c’è sempre qualcuno che non si dà per vinto e continua a lottare, a dispetto di ogni evidenza. Persone del genere diventano fonte di ispirazione e, qualche volta, i loro sforzi riescono davvero a fare la differenza.
È accaduto in Uzbekistan, a Nukus, una cittadina dimenticata dal mondo. Qui un uomo ha sconfitto da solo una delle più spietate campagne di censura mai operate nella storia.
Due cose hanno fatto di Nukus l’isolata capitale della regione del Karakalpakstan. La prima è la vicinanza con il lago d’Aral, un mare antichissimo oggi quasi del tutto prosciugato dalla follia sovietica. Sulle sue sabbie inquinate e riarse dal sole, oggi sorge un angosciante – quanto necessario – museo della memoria. La seconda è il museo d’arte del Karakalpakstan che, con le sue 80.000 opere d’arte, è la seconda più grande collezione al mondo di dipinti d’avanguardia russa degli anni 20-30.
In entrambi i casi, Nukus ci dimostra che non esiste nulla di impossibile. Non esiste limite alla follia umana, nel caso del lago Aral, né limite al coraggio e al valore dei singoli individui, come testimonia l’opera di Igor Savitsky.
Nel 1932 nasceva il Realismo Socialista, con forme e contenuti rigidamente codificati dal Regime e pubblicati in un editto. Gli artisti che rifiutarono di conformarsi all’estetica prestabilita furono arrestati, confinati o assassinati. Le grandi purghe staliniane non mieterono vittime solo tra i vertici del partito, ma anche tra intellettuali, giornalisti e pittori. Eppure, qualche voce libera resistette e si espresse nell’ombra. È giunta fino ai giorni nostri grazie a persone come Igor Sativski, che hanno raccolto e conservato opere d’arte pericolose come mine inesplose.
Artista per passione ed archeologo di professione, Savitski giunse a Nukus nel 1950, al seguito di una spedizione della sovrintendenza culturale sovietica. Si innamorò a tal punto della cultura centro-asiatica da stabilirsi nella cittadina. Dieci anni dopo, vi aprì un museo d’arte locale che venne riconosciuto dalle autorità nel 1966. Oltre a collezionare opere di etnografia locale, Savitsky cominciò a raccogliere la produzione di artisti appartenenti a correnti condannate dal Regime, opere che avrebbe dovuto denunciare e bruciare.
“Qui dentro”, spiega Marina Babanazarova, la prima curatrice del museo, “ci sono più di 80.000 opere, per lo più legate all’avanguardia russa: in particolare, quelle che vanno dagli anni ’20 ai ’40. Igor Savitsky le ha ricevute direttamente dagli autori, molte le ha acquistate dalle famiglie o gli sono state affidate di nascosto perché le portasse in salvo”.
Negli scantinati del museo, all’oscuro dal Regime, Savitsky ammassò così migliaia di opere di artisti deportati nei gulag. Molte sono ancora accatastate dove Savitsky le ha lasciate e aspettano i fondi per trovare una giusta collocazione. Non tutte sono capolavori di grandi autori, ma alcune potrebbero riscrivere addirittura la storia dell’arte moderna, aprire nuovi percorsi intellettuali, rivelare inedite influenze.
Percorro le strade di Nukus, regolari e anonime come vuole lo stile sovietico. Neanche la giornata assolata ed estiva riesce a sconfiggerne il grigiore. Ma sono felice di aver aggiunto Nukus come tappa del mio viaggio in Uzbekistan: appena varcate le porte del museo, le geometrie e i colori delle tele esplodono di vita e di emozioni. Osservo con rispetto ogni opera, le dedico un momento di ammirazione. Rifletto su un tempo non troppo lontano in cui dipingere liberamente era pericoloso. Ogni opera appesa è stata un grido alla rivoluzione, di inestimabile valore.