“L’Africa può essere una terapia. I grandi spazi, la natura in alcuni posti ancora selvaggia. La vita semplice. Il sorriso dei bambini che non hanno nulla. I grandi silenzi. Sono tutte cose che ci fanno pensare e forse comprendere quanto poco valore abbiano tutte quelle piccole cose per cui ci danniamo”.
– Licia Colò
Il Senegal è un paese che lascia turbati. Dakar mi ha colpito allo stomaco con la visita all’isola di Goree, un tempo snodo strategico per il traffico di schiavi. Il nord del paese, con le sue distese aride di savana quasi desertica, mi ha impressionato per la presenza di grandi baobab solitari e la durezza della vita dei pescatori di Kayar.
Ora mi lascio tutto questo alle spalle e mi sposto a sud, verso Toubakouta, vicino al confine con il Gambia. La cittadina è il punto migliore da cui partire per esplorare il delta del fiume Saloum, un affascinante labirinto di oltre 200 isolotti di sabbia e conchiglie.
La vegetazione brulla del nord del Senegal lascia qui il posto a lussureggianti panorami di baobab e mangrovie, abitati da oltre 250 specie di uccelli come pellicani, fenicotteri, aironi, gabbiani e sterne reali. Le acque dolci del fiume si mescolano al mare salato dell’Oceano Atlantico, rendendolo un habitat ideale per tartarughe, lamantini e delfini.
Il delta del fiume Saloum è un parco nazionale dal 1976 e si estende per oltre 70.000 ettari. Di questi, 811 sono stati designati patrimonio dell’umanità UNESCO nel 2011, per la presenza di tumuli di conchiglie, ammassati dagli uomini nel corso dei secoli. Questi tumuli hanno prodotto degli isolotti artificiali, alcuni dei quali lunghi centinaia di metri, usati anche come luoghi di sepoltura.
Il modo migliore per visitare la zona è la navigazione in piccole imbarcazioni di legno a motore.
Saliamo su una piroga e ci dirigiamo verso il Reposoir des oiseaux, un’isola di mangrovie dove gli uccelli nidificano e si riposano.
Siamo in un’Africa diversa da quella visitata finora, popolata e sfruttata dall’uomo. È come se avessimo varcato un confine: siamo improvvisamente immersi in un’Africa ancestrale, selvaggia e potente, in cui regna la natura incontaminata.
Il Reposoir è affollatissimo di pennuti. È divertente notare che l’eleganza che sfoggiano nel librarsi in volo svanisce in una imbarazzante goffaggine nel momento in cui si posano sui rami e bisticciano tra loro per occupare il ramo preferito. “Sembra un condominio mal gestito”, penso tra me e me.
Il nostro traghettatore ci spiega che questo isolotto è così affollato perché è distante dagli altri a sufficienza da impedire ai predatori terrestri di farne terreno di caccia.
Il sole cala ed è ora di tornare a Toubakouta. Durante il tragitto regna il silenzio, fuori e dentro di noi. Ammiriamo le sagome imponenti dei baobab che si stagliano nere contro il cielo rosso al tramonto. Sono panorami come questi che infettano i viaggiatori del cosiddetto ‘mal d’Africa’.
Il mattino seguente ci rimettiamo in barca per proseguire la nostra esplorazione del delta del Saloum. Ci sono molti villaggi in questa regione, tutti isolati e dediti alla pesca.
Decidiamo di visitare il villaggio di Diogane, che conta 2.000 abitanti, soprattutto perché qui si trovano una piccola scuola e un’infermeria. Vogliamo portare loro medicinali, matite e quaderni.
È una scelta azzeccata, non solo per l’utilità del nostro gesto, ma anche perché ci permette di fare esperienza della famosa ospitalità senegalese, la Teranga, di cui finora non abbiamo rinvenuto traccia. In questa parte del Senegal, infatti, l’etnia predominante non è quella Wolof, come a Dakar e Saint Louis, ma quella Seher. La loro gentilezza e accoglienza resterà sempre dentro di me, bilanciando l’ostilità che ho riscontrato finora.
Sbarchiamo a Diogane mentre un gruppo di bambini sorridenti corre verso il molo sbracciandosi in scomposti saluti. Non ci chiedono niente e non si aggrappano alla ricerca di regali o caramelle. Vogliono solo essere presenti al nostro arrivo e sperano di essere presi in braccio e fatti ruotare come alle giostre.
Pochi metri più in là, lungo la spiaggia, i pescatori sono alle prese con la manutenzione delle loro barche. Ho già visto le operazioni di pittura delle piroghe a Kayar, ma questa volta invece di essere scacciato vengo invitato a vedere il procedimento. Posso fotografare quanto voglio e chiacchierare amabilmente con i giovani pescatori. Uno dopo l’altro, mi chiedono di essere fotografati e di potersi rivedere dallo schermo della macchina fotografica. Li trovo tutti bellissimi e glielo dico, provocando scoppi di risate imbarazzate. I bambini non ci mollano un attimo e ci fanno segno di seguirli.
Ad un centinaio di metri, c’è una festa con musica allegra e tanta gente radunata. Ci spiegano che si sta svolgendo un matrimonio e ci chiedono di prendere parte ai festeggiamenti, purché ci impegniamo a non fotografare l’evento. Gli africani sanno divertirsi in modi da noi ormai dimenticati: la presenza stessa degli invitati è motivo di grande gioia e soddisfazione. E nessuno sente il bisogno di appartarsi per guardare le notifiche dei social sul cellulare!
La scuola di Diogane ci dona un’accoglienza altrettanto festosa. I bambini sono nelle loro classi intenti a studiare, ma appena la maestra ci presenta agli studenti, si scatena un caos senza precedenti!
I bambini ci corrono incontro e ci trascinano letteralmente ai loro banchi. Si divertono tantissimo a vederci seduti come dei normali studenti, capovolgendo i ruoli. La maestra osserva la scena divertita.
Non credo che questi bambini siano abituati alla disciplina ferrea dei nostri vecchi collegi. Ricordo quando ero seduto io ai banchi delle elementari, ricordo le punizioni severe, anche corporali. Erano i tempi in cui “non doveva volare una mosca” e sono felice di constatare che qui ‘volano’ tante risate. Mi diverto a fotografare questi studenti scapestrati, pieni di gioia e così vitali.
“Forse qui la gioia è libera perché è la vita stessa che impone la sua disciplina”, rifletto.
Diogane è un villaggio in cui è di casa la fatica. Le donne raccolgono per lo più molluschi e ostriche d’acqua dolce, che crescono attaccate alle radici esposte delle mangrovie. Gli uomini pescano nel fiume. Nel villaggio non c’è elettricità quando non c’è il sole e non c’è acqua nei serbatoi quando non piove per lunghi periodi.
L’Africa sembra ripetermi, come un mantra, che quando si ha poco si è pieni di gioia. Ma è una responsabilità dei paesi più ricchi far sì che questo poco non diventi troppo poco. Perché è un crimine che grida vendetta sapere che gli orfanotrofi del Senegal sono pieni di bambini che non sono stati abbandonati per volontà dei genitori, ma per la loro povertà.
Pochi giorni dopo aver visitato Diogane, ho modo di entrare nell’orfanotrofio di Dakar La Poupponière. “Gli orfani qui sono pochissimi”, ci spiega la direttrice. “Per lo più ci sono bambini le cui famiglie non possono sostenere il costo di allevare un altro figlio. Ce li lasciano nella speranza di poterli riprendere tra qualche anno”.
Girando tra le stanze dell’istituto, incontro sorrisi pieni di gioia e speranza, manine protese per essere prese in braccio. Bambini che non hanno niente se non una incontenibile voglia di vivere. “Questi due bambini sono gemelli”, dice la direttrice. “Siamo felicissimi di aver trovato una famiglia che li prenda entrambi”. Anche io ho un fratello gemello e mi si stringe il cuore al pensiero di essere separato da lui. Mi guardo intorno: tutti i miei compagni di viaggio hanno dei bambini in braccio. Sorridono e giocano, cercando di non far trasparire l’amarezza. Ma appena lasciamo l’istituto, ci si gonfiano gli occhi dal pianto e torniamo in albergo in silenzio, covando tanta, tantissima rabbia. Ogni luogo che visito in Senegal è uno specchio in cui guardo il rovescio di me stesso e della società a cui appartengo.
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2 Comments
Immagini stupende, ricordi, credo, meravigliosi.
Bellissimo, grazie