Nel deserto del Mangystau, in Kazakhstan, è più facile imbattersi in un cammello o in uno scorpione che in un altro essere umano. La natura regna incontrastata.
Quando scelgo una meta poco battuta, mi piace condividere il percorso con degli amici. Questa volta partirò con Giulia, con la quale discutiamo le tappe da inserire. Dedicheremo la prima settimana all’esplorazione del Mangystau, una regione desertica del Kazakhstan. Poi prenderemo un treno notturno che ci condurrà oltre il confine con l’Uzbekistan. Da lì, ripercorreremo parte dell’antica via della seta.
“I nomi dei luoghi sono impronunciabili, ma la guida locale sembra davvero in gamba. Ovviamente non ci sono bagni. Portiamoci un accendino per bruciare la carta igienica. Vedrai, ci divertiremo tantissimo!”
Giulia ha la voce piena di entusiasmo, come la mia. Non abbiamo mai viaggiato insieme e scoprirò presto che ha una propensione naturale a cacciarsi nei guai. Gli eventi sembrano girarsi di traverso quando meno se l’aspetta: parte col chiedere un’indicazione ad un poliziotto e finisce con il farci quasi arrestare. Accetta l’aiuto di una guardia in una madrasa e ci coinvolge in un caso di corruzione. Ma procediamo con ordine…
Il Mangystau si estende per circa 400 km tra le coste del Mar Caspio e il confine con l’Uzbekistan. Ha una densità abitativa bassissima, circa 2 abitanti per km². Se il Kazakhstan è un paese poco popolato, il Mangystau è la sua regione più disabitata. È più facile imbattersi in un cammello o in uno scorpione che in un altro essere umano.
Atterriamo ad Aktau, la capitale della regione Mangystau. Qui il turismo di massa non è ancora arrivato – si contano solo 1.000 turisti l’anno – e non ci sono strutture ricettive né servizi di sorta.
Sergey Khachatryan, la guida locale, ci sorride e ci stringe la mano, poi ci ospita nella sua jeep impolverata. Siamo diretti nel bel mezzo del nulla. Per 5 giorni, oltre i nostri finestrini, sfileranno lande desolate e massicci rocciosi dai colori sorprendenti.
Il paesaggio, che alterna ampi spazi desertici a sconfinate praterie steppose, ci offrirà scenari post-apocalittici ai confini della civiltà.
Il sole non è ancora alto nel cielo. Ci fermiamo nei pressi di Tauchik, un piccolo villaggio dove faremo rifornimento. Quattro case tirate su senza pretese incorniciano la strada.
La stazione di servizio è di gran lunga la costruzione più rifinita e curata nel raggio di chilometri! Tutto intorno piccole fattorie e abitazioni con modesti cortili privati. Mi intrufolo in uno di questi, quasi temendo di invadere l’intimità del posto.
Alcuni bambini mi vedono e mi salutano. Si avvicinano, mostrandomi i loro tesori: uno tiene in mano un grosso mazzo di penne, legate con un elastico; un altro stringe a sé un micio di poche settimane. È come se volessero condividere con me la gioia di quello che hanno. “Ma che bello!”, esclamo. I loro visetti felici riescono a convincermi di trovarmi davvero davanti al bottino dei pirati.
In lontananza, vedo una signora che avanza. “Mi ha scoperto”, penso. “Sono entrato in casa sua senza invito. Come minimo mi caccerà a bastonate.”
Sono sul punto di alzare le mani in segno di resa, quando lei mi fa un cenno con la mano. Sorride. Apre il cancello di un recinto e mi invita ad entrare. Dentro c’è un piccolo di cammello. Vuole che lo fotografi. Lo accarezza come se fosse qualcosa di prezioso. Anche la signora mi ha accolto come uno di famiglia e mi ha mostrato ciò di cui va fiera. Passiamo qualche minuto insieme. Quasi stordito da tanta ospitalità, sorrido e saluto… saluto e sorrido.
Torno alla jeep. Provo ad immaginare un turista kazako che entra in un cortile di una casa privata a Roma. Riceverebbe la stessa accoglienza?
Il primo sito che raggiungiamo è lo Shakpoaktysay Canyon, una distesa accecante di rocce taglienti che affaccia sul mar Caspio.
Ci incamminiamo lungo sentieri terrosi e Sergey ci indica formazioni rocciose che ricordano figure di animali o di navi. “Questo qui lo chiamo Titanic!”, ci dice ridacchiando. “Guardate, sta affondando!”. A noi in realtà sembra un grosso ferro da stiro, ma non abbiamo il coraggio di smontare il suo entusiasmo.
Più avanti ci mostra dei fossili marini e le orme di animali vissuti qui centinaia di milioni di anni fa.
Mi colpisce la vastità degli spazi. Niente si frappone tra il mio sguardo e l’orizzonte, in qualunque direzione lo rivolga. Una nuvola solitaria è protagonista del cielo. La fotografo con un grandangolo. Dal monitor della mia macchina fotografica, mi sembra di osservare un plastico di dimensioni giocattolo. Difficilmente una foto può restituire la percezione di grandezze tanto estese. Siamo minuscole formiche che si danno troppa importanza, penso. Davanti a noi uno scenario antico, immortale, a cui nulla interessa dei nostri corsi e ricorsi.
“Are you a photographer?”, mi chiede Sergey nel suo inglese basic. “Stammi vicino. Ti mostrerò i luoghi migliori per scattare!” Lo conosco da poco e già lo adoro.
Nei giorni a venire, scoprirò che ha disposto le nostre fermate in un crescendo di stupore e meraviglia. Ci sta dando modo di familiarizzare con la vastità degli spazi, ma presto ci mostrerà le forme incredibili dei massicci rocciosi di Ayrakty-Shomanay, detta “la valle dei Castelli”, e delle divertenti Toryish Balls… infine ci stupirà con i colori ‘golosi’ del Tiramisu Mountain (così lo ha battezzato lo stesso Sergey) e con gli squarci vertiginosi di Bozzhira, che per poco non mi faranno svenire.
La nostra jeep riparte, alzando nuvole di polvere che oscurano il cielo assolato. Sorpassiamo un cammello solitario che passeggia sul ciglio della strada.
“Guarda! Hanno la targa appesa al collo, come fossero delle autovetture!”, ridacchio.
Finalmente arriviamo al Kapamsay Canyon, dove monteremo le tende stanotte. Qui un tempo scorreva un fiume, poi prosciugatosi. Al suo posto, si trova ora una gola stretta e profonda, scavata nella roccia silicea. È bianchissima, abbagliante. Le rocce vengono spesso raccolte e usate per purificare l’acqua, una cosa di cui noi fortunatamente non abbiamo bisogno. Abbiamo una scorta abbondante di acqua in bottiglia. Ma si tratta di acqua purificata, quasi priva di sali minerali. Per fortuna ho portato una scorta di Polase!
Sergey e Aset, il suo interprete personale, ci raccontano la leggenda di Kapam, il re guerriero che circa 5 secoli fa regnava su queste lande. Il suo potere era grande e il suo cuore era puro. I sudditi lo amavano, lo ammiravano, ma i suoi rivali lo invidiavano a tal punto che ordirono un complotto per distruggerlo. Venuti a sapere dalla moglie che il tallone era il suo punto debole, i nemici gli fecero un agguato mentre officiava i riti religiosi e glielo tagliarono di netto. Kapam, ferito gravemente e in punto di morte, spiccò il volo e riuscì miracolosamente a portarsi sul lato opposto della gola del canyon. Il suo corpo non venne mai ritrovato e per questo i locali credono che il suo spirito aleggi ancora lungo le gole del Kapamsay Canyon, per proteggere chi lo attraversa.
Montiamo le tende e aspettiamo che sia servita la cena. L’attesa ci riporta alle cattive abitudini della vita moderna. Le dita cadono meccanicamente sugli smartphone. Fortunatamente non c’é alcuna copertura di rete: ce ne sbarazziamo alla svelta, senza rimpianti. Allo stesso modo, ci adattiamo alla mancanza di servizi. Ogni roccia alta mezzo metro diventa all’occorrenza una toilette a cielo aperto.
Viene servito un pasto frugale e senza pretese, cotto al volo su un fornello da campo. Cerco di prendere la scarsità di cibo come un’occasione per mettermi a dieta, ma la vista delle baby-porzioni crea in me indignati moti di protesta. Sarà così per tutto il viaggio e, ahimè, non riuscirò a smettere di lamentarmene.
“Andrea, come puoi dire che stiamo mangiando poco?”, mi rimprovera Giulia di tanto in tanto. Le faccio notare che sono alto quasi 30 cm più di lei e peso anche una trentina di chili in più. Le porzioni che riceviamo dovrebbero tenerne conto mentre ci forniscono esattamente la stessa quantità di cibo. A quel punto, la vedo fare spallucce e capisco che l’argomento è chiuso.
È notte ormai. Mi infilo nella tenda e mi corico nel sacco a pelo, ma prima mi riempio la pancia di stelle. I cieli non sono mai bui qui. Risplendono di tante, tantissime luci. Mi saziano di felicità.