Kayar, Senegal: Aiutiamoli a casa loro | Senegal Travel Storytelling

Il mare del Senegal è tra i più pescosi del mondo. Il porto di Kayar offre lavoro a circa un milione e mezzo di persone. Ciononostante, negli ultimi dieci anni, la quantità di pesce in zona è diminuita dell’80%. Com’è possibile?

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Kayar, il più grande centro di pesca artigianale del Senegal

Ancora impressionati dalla visita all’isola di Goree, ci alziamo di buon’ora per raggiungere il mercato del pesce di Kayar. Ciò che sto per vedere mi riempirà gli occhi di meraviglia.

Kayar è un villaggio a circa 60 km a nord di Dakar ed ospita uno dei centri di pesca più grandi del Senegal. Ci si aspetterebbero grandi imbarcazioni dotate di sistemi di pesca industriali e invece ci troviamo davanti ad una sterminata sfilata di piroghe, piccole imbarcazioni tradizionali in legno colorato. Ogni imbarcazione ha il proprio motivo decorato, che identifica la famiglia di appartenenza. Costellano l’orizzonte in maniera confusionaria, mentre aspettano il proprio turno per rientrare sulla terra ferma e scaricare il prezioso bottino.

La spiaggia brulica di persone operose che attendono lo sbarco e si preparano ad accogliere i pescatori. All’approdo delle piroghe l’attività diventa frenetica. Ogni squadra fa la spola tra la propria barca e la spiaggia, caricando il pescato in grandi cassette di plastica che trasportano sulla testa.

L’operazione è artigianale e il pesce che straborda dal cesto cade ballonzolato ad ogni passo. I bambini corrono a recuperarlo, se lo infilano nelle magliette e scappano via. Anche oggi hanno conquistato un pasto per la propria famiglia.

Il pesce viene gettato dalle cassette direttamente a terra, dove le donne hanno steso dei grandi teli di plastica. Sono loro che si occupano di vendere il pesce in loco, anche se la maggior parte viene poi spostato in grandi frigoriferi ammassati qualche metro indietro. Non sono collegati a nessuna presa di corrente e, dal loro aspetto malandato, dubito che funzionino.

Senegal, fotografare con cautela

Il mio sguardo viene attratto da un pescatore di ritorno dalla barca, con in testa il suo grosso e pesante cesto. Indica con la mano un punto e grida qualcosa, la sua espressione è pregna di disgusto. Cerco la causa di tanta riprovazione e individuo Tiziana, una compagna di viaggio, che sta facendo una foto con il cellulare. Intorno a lei, alcuni pescatori le intimano di mettere via lo smartphone. In pochi minuti tutti riceviamo lo stesso monito. È vietato fotografare.

Resto sorpreso dall’astio con cui ci viene detto di toglierci di mezzo, di spostarci dalla rotta dei pescatori, di nascondere le macchine fotografiche.

In sostanza, ogni nostro passo è monitorato da qualche locale che avvisa gli altri se tentiamo di fotografare qualcosa. Dobbiamo discutere anche solo per portarci a casa un particolare del pesce disseminato sulla spiaggia.

“È un’attività straordinaria”, cerca di dire Barbara alla nostra guida. “Fotografiamo perché tutto questo ci affascina”. Ma la situazione non migliora. La mancanza di ospitalità che stiamo sperimentando purtroppo ci accompagnerà durante tutto il soggiorno.

Decido comunque di fare qualche scatto, montando il teleobiettivo e cercando di essere discreto. Sto vivendo una situazione eccezionale, in equilibrio precario tra presente e passato, e il mio animo da reporter non ascolta divieti. Man mano che fotografo, capisco che solo alcuni ci rimproverano; altri, invece, ci sorridono e ci lasciano fare.

Mi perdo su questa immensa spiaggia, confondendomi con le persone del posto; osservo da vicino il loro operato e mi godo appieno ogni istante. Tutto il villaggio è impegnato in questa attività e il senso di comunità che si respira è qualcosa a cui noi occidentali non siamo più abituati.

Senegal, la crisi della pesca artigianale

Il mare del Senegal è tra i più pescosi del mondo. Offre lavoro a circa un milione e mezzo di persone. La filiera del pesce non riguarda solo i pescatori, ma anche tutto il settore del trasporto e della rivendita che coinvolge i paesi confinanti.

Ciononostante, negli ultimi dieci anni, la quantità di pesce in zona è diminuita dell’80% e si stima che nei prossimi 10 la fauna ittica locale potrebbe scomparire del tutto.

La ragione va ricercata nell’attività sconsiderata delle multinazionali cinesi, europee e russe che hanno invaso le acque senegalesi con centinaia di pescherecci. Ognuno di questi può catturare fino a 20.000 tonnellate di pesce all’anno, l’equivalente del pescato annuale di circa 1.700 piroghe senegalesi. La maggior parte viene utilizzato per produrre mangimi con i quali nutrire il bestiame degli allevamenti intensivi e questo fa sì che circa il 25% del pescato senegalese non venga utilizzato direttamente per l’alimentazione umana.

Ogni anno mancano circa 1,9 miliardi di pesce dai mercati africani, con un netto impoverimento della popolazione locale. Qualche anno fa, Mame Fatou Kaire, un’imprenditrice ittica senegalese, ha denunciato la situazione avvertendo che le attività dei pescherecci stranieri stanno producendo disoccupazione su larga scala. Sempre più persone decideranno di lottare per un futuro migliore, migrando verso l’Europa. E l’Europa si dividerà tra chi vorrebbe ospitarli tutti e chi vorrebbe solo che gli immigrati restassero a casa loro.

Se vi state domandando perché il Senegal non prenda decisioni politiche in merito, è bene sapere che hanno già tentato. Per salvaguardare i pescatori locali, negli ultimi anni il governo senegalese non concede più licenze ai pescherecci stranieri.

Eppure, diverse imbarcazioni continuano a operare da paesi vicini come la Mauritania, senza contare che anche in Senegal si continuano ad ottenere licenze di pesca grazie alla corruzione esercitata sui politici locali. Il mondo è un sistema di vasi comunicanti. Nessuno di noi ha colpa, su questa spiaggia. È solo questione di karma.