Per molti secoli la Birmania è stata chiamata il Regno di Ava. Non è incredibile che, dove un tempo sorgeva la capitale del Myanmar, oggi vi sia un umile villaggio di contadini? Forse uno storico definirebbe Ava decadente e in rovina, ma non si può non rimanere incantati davanti ad una quotidianità sobria e serena, che dovrebbe solo far invidia.
Ava, che in birmano significa “città delle gemme”, è stata per ben 4 volte la capitale della Birmania tra il 1300 e il 1800. Si trova nelle vicinanze del fiume Irrawaddy, a pochi chilometri da Amarapura, nella periferia a sud di Mandalay.
Molti turisti vi dedicano una gita in calesse, per godere delle rovine degli stupa e delle pagode, disseminati qua e là, che la fanno assomigliare alla spettacolare Pagan. Inoltre, percorrendo le vaste distese erbose, i palmeti e i campi coltivati è possibile avere un assaggio della vita quotidiana dei contadini del limitrofo villaggio Inwwa.
I carretti di legno trainati dai buoi e le donne che lavano ancora i panni sulle sponde del fiume sono un vero brodo caldo per l’anima.
Ava è raggiungibile solo con un’imbarcazione, perché si trova su un isolotto artificiale ricavato nella confluenza di due fiumi, il Myitnge e l’Irrawaddy.
La visito in una giornata di sole: la luce pomeridiana accarezza le fronde degli alberi e valorizza i resti dell’antica sede reale, ammantando tutto di magia.
Appena approdo sull’isola, salgo su un calesse di legno, con la calotta parasole decorata con stoffe ricamate e guidato da un cavallo dalla criniera spazzolata. Il cocchiere ha un sorriso gentile e sincero, come se ne vedono solo in Birmania. Ci avviamo per stradine terrose e poco agevoli, specialmente nei tratti che costeggiano gli appezzamenti coltivati. Prima di ogni buca, il cocchiere si assicura che io mi tenga forte per evitare di sobbalzare; fa bene a ricordamelo, sono così ammaliato dagli scenari che mi sfilano dinnanzi che potrei saltare fuori dal calesse senza nemmeno accorgermene.
I due siti di maggior interesse sono il Monastero Bagaya Kyaung e quello di Maha Aung Myae Bon Zan.
Bagaya Kyaung è un monastero buddista interamente costruito in legno, con 267 pilastri in teak. È uno dei pochi a non aver subito restauri invasivi e questo lo rende davvero speciale. Eretto nel 1834, con pali di legno che raggiungono i 18 metri di altezza, ha un’architettura davvero suggestiva.
Si entra, come di consueto, a piedi scalzi. Un cartello all’entrata recita: “Togliersi le scarpe. Chi teme il calore del pavimento resti a casa”! In realtà, essendo un po’ malconcio, la mia maggiore preoccupazione mentre lo visito è di finire in un buco del pavimento o calpestare un chiodo sporgente arrugginito!
Le stanze sono spoglie e abbastanza buie, con altari e statue di Buddha nascosti nella penombra. Il fascino maggiore lo riserva il legno di teak, la cui essenza è così mangiata e scurita dal tempo da sembrare affumicata.
Riprendo il mio giro in calesse: il cocchiere non parla una parola di inglese ma cerca di indicarmi le rovine più significative. Ne comprendo l’importanza dalla grandezza dei suoi sorrisi!
Mi invita a fotografare un massiccio edificio in mattoni, che poi scopro essere la Torre di Nanmyin, un avamposto di guardia del palazzo reale di Bagyidaw. La torre, che pende in maniera preoccupante, è tra i pochi resti del palazzo, che ha subito la distruzione operata da diversi terremoti nel corso dei secoli.
Purtroppo il terremoto del 2017 ha reso alcune delle principali attrazioni non visitabili e mi domando se è per questo che, come scopro al termine del giro, non ho potuto visitare il complesso di Yadana Hsemee Pagoda. Le sue statue di Buddha e numerose pagode ricordano molto quelle che ho avuto modo di visitare a Shwe Inn Thein, durante il mio giro del lago Inle. Dico a me stesso che tutto sommato non ho perso granché, ma è una bugia bianca che mi aiuta a rassegnarmi alle circostanze, voi non siete tenuti a credermi!
Finalmente arrivo all’edificio più grande e suggestivo di tutta Ava, il monastero Maha Aung Myae Bonzan. È detto anche Ok Kyaung, in ricordo della prima regina di Bagyidaw che lo fece costruire nel 1818. Mentre mi aggiro tra le rovine, mi sembra di vederla affacciarsi dalle finestre.
Pur richiamando le linee dell’architettura tradizionale, il monastero è un vero unicum nel suo genere. La regina lo fece infatti costruire in mattoni e stucco, contravvenendo alle convenzioni del tempo, che prediligevano l’utilizzo del legno per gli edifici sacri. Questo ha permesso al monastero di resistere ai frequenti terremoti dell’area, anche se nel 1838 un terremoto lo danneggiò a tal punto da richiedere un restauro.
Trascorro il resto del pomeriggio con la sensazione di essermi perso nel tempo.
Intorno a me ci sono gli echi di un passato importante, quello di Ava, e la serenità di un presente semplice e senza pretese, quello del villaggio di Innwa. Un contrasto che incarna bene l’essenza del Myanmar, paese di una bellezza timida e riservata, ma capace comunque di arrivare dritto al cuore.